Moira Chiodini – Patrizia Meringolo
LabCom Ricerca e Azione per il benessere psicosociale – spin-off accademico dell’Università degli Studi di Firenze – www.lab-com.it
Il 2020 verrà ricordato per lo scoppio dell’epidemia di polmonite (malattia respiratoria COVID -19), iniziata già nel 2019 nella città di Wuhan in Cina, causata da una nuova forma di coronavirus (SARS -CoV-2).
La diffusione del virus, che sta colpendo in queste ultime settimane l’Italia, e che ha già acquistato, così come precisato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una valenza di pandemia, pone una serie di difficoltà sia ai singoli cittadini che all’intera comunità in termini di salute fisica e di benessere psicologico.
Nelle
situazioni di crisi e di emergenza, come quella attuale, ci possiamo trovare di
fronte ad una serie di reazioni e di effetti da una parte prevedibili, pur
nella loro drammaticità, e dall’altra invece del tutto nuovi.
Per spiegarci meglio, la psicologia e la
psicologia dell’emergenza in particolare, conoscono bene gli esiti a breve,
medio e lungo termine che un evento catastrofico può avere nella vita di una
persona. Sappiamo, ad esempio, che alcuni disturbi (come insonnia, tachicardia,
ansia …) sono assolutamente “normali” nei momenti immediatamente successivi
all’evento, o come le traiettorie di esito a lungo termine possono essere
risposte di resilienza, o recovery (ovvero recupero dello stato di salute
precedente) o di PTSD (disturbo post-traumatica da stress).
Fortunatamente, come sottolineato da
importanti autori come Bonanno (2004), le risposte di salute e resilienza sono
molto superiori a quanto ci possiamo immaginare.
Se
gli individui hanno, a quanto sembra, una grande capacità di reagire agli
eventi stressanti e ai traumi attivando abilità di gestione (tecnicamente
chiamate strategie di coping) e superamento del trauma, allora occorre
chiedersi se esiste una possibilità di potenziare gli elementi protettivi che
permettono di agire e reagire in modo resiliente.
Per
fare questo non possiamo che affidarci alla scienza e alla conoscenza che nel
corso degli ultimi decenni si è sviluppata intorno allo studio del Disturbo
Post Traumatico da Stress e della Resilienza. In primis vorremmo far riferimento
allo studio di Brewin e colleghi del 2000 che ha posto l’accento
sull’importanza, non tanto dei fattori pre-trauma, quanto di quegli aspetti che
intervengono dopo o durante il trauma come, ad esempio, la gravità del trauma,
il supporto sociale, ed ulteriori elementi di stress. Ciò risulta altamente
significativo perché consente di focalizzarsi su quegli aspetti su cui possiamo
esercitare una qualche forma di controllo. Sulla condizione precedente alla
situazione traumatica non possiamo intervenire, essendo ormai nel passato, ma
su ciò che avviene nel momento presente e sugli aspetti che caratterizzeranno
il post evento, invece, possiamo ancora intervenire in modo significativo.
In
questi giorni si moltiplicano le indicazioni, i consigli, i vademecum per i
cittadini che si trovano, chi più chi meno, a dover far fronte a questa
situazione emergenziale.
La nostra intenzione non è di esprimere un giudizio su quanto già detto, né di aggiungere indicazioni ad indicazioni che, pur con le migliori intenzioni, rischiano di creare spaesamento se non confusione. E’ fondamentale, infatti, che le persone selezionino le informazioni facendo riferimento ai comunicati ufficiali e alle notizie provenienti da fonti scientifiche accreditate (https://www.epicentro.iss.it/; http://www.protezionecivile.gov.it/).
La particolarità di tale situazione
emergenziale, che si differenzia da altre catastrofi come il terremoto, o
l’attacco terroristico, richiede tuttavia una specifica attenzione in quanto
proprio le azioni e i comportamenti che devono essere messi in atto per
combattere la pandemia hanno in sé effetti di rischio, come l’isolamento e il
ritiro sociale.
Non
ci occuperemo, quindi, degli aspetti più evidenti derivati dall’emergenza quali
ad esempio la paura del contagio o il senso di impotenza, ma degli effetti
negativi per la salute e per la capacità di risposta resiliente che,
paradossalmente, derivano proprio dalla “guerra” alla diffusione del virus.
L’isolamento
Se consideriamo, come visto
precedentemente, che la possibilità di contare sull’aiuto, il sostegno e il
supporto di amici, parenti, vicini risulta una delle variabili che più di altre
permettono alle persone di reagire positivamente ad una situazione di stress,
allora diviene evidente come il coronavirus sferri il suo attacco colpendo le
persone nella possibilità di attivare la propria rete di sostegno. Poter
contare sull’aiuto degli altri, quando necessario, permette di sperimentare
l’effetto positivo dell’aiuto, sia esso materiale o emotivo. Il sostegno
sociale, o la sua mancanza come in questo caso, è ancora più rilevante se
consideriamo l’impatto del trauma sugli anziani che sembrano subire di più l’effetto
di un depauperamento della rete sociale (Meringolo; Chiodini, Nardone, 2016).
I
vari gruppi di supporto, ma anche i momenti di debriefing in gruppo dopo un evento
catastrofico come il terremoto, si basano sulla forza dei legami e
dell’esperienza condivisa per gestire la difficoltà e superarne gli effetti
traumatici. Confrontarsi con le emozioni e i vissuti altrui permette di
“normalizzare” la propria esperienza, sentire che non siamo “soli” costruisce
l’idea di un “noi” che è di fatto più forte di un singolo “io”.
Per chi vive solo, la possibilità di
uscire è una grande risorsa, che fa percepire l’isolamento come libertà di
scelta. L’isolamento forzato, invece, può avere effetti destabilizzanti. Di
fronte a questo alcuni suggerimenti sono possibili: darsi alcune routine
giornaliere, mantenere gli orari dei pasti, vestirsi e prendersi cura di sé
sono comportamenti che aiutano a non lasciarsi sopraffare.
Cosa
fare quando il confronto e il supporto sociale non sono possibili? Occorre far
ricorso a tutto ciò che permette di rimanere in connessione con le persone
significative della nostra vita. La tecnologia in questo senso ci aiuta, non
tanto nella sua dimensione di connessione globale cui ci hanno abituato i
social network (che possono trasformarsi anche in veicoli di catastrofismo e
fake news), ma come strumento che accorcia le distanze e avvicina i cuori.
L’invenzione del telefono da parte di
Meucci non fu solo un’importante rivoluzione tecnologica nel campo delle telecomunicazioni,
ma rappresentò una sorta di magia per tutte le persone che, per la prima volta,
potevano sentire i loro cari anche se lontani.
Se
questo può far sorridere in un’epoca di network globale e di connessioni costanti,
24 ore su 24, ne possiamo comprendere il profondo significato pensando
all’importanza che riveste un cellulare per un profugo, ancora più importante
di altri beni ritenuti di prima necessità. Ma se quel cellulare rappresenta
l’unica possibilità di non essere soli, di avere accanto i nostri cari
nonostante tutto, allora ne comprendiamo il vero valore. Ed è proprio quel
valore che dobbiamo coltivare in questo periodo, essere grati all’avanzamento
tecnologico perché ci permette di essere veramente connessi, di appartenere ad
una rete di relazioni fatta di persone scelte, selezionate, “curate”.
La
Convivenza coatta
Lo stato di isolamento si accompagna,
paradossalmente, ad una condizione di convivenza coatta che obbliga le persone
a vivere, convivere e condividere tempi e spazi 24 ore su 24 con altre persone,
di solito i familiari. Se da una parte siamo isolati, dall’altro siamo
obbligati a rinunciare alla nostra “solitudine”. Capiamo bene come questo
strano e diabolico connubio possa sortire effetti drammatici.
Capita
sempre più spesso sentire persone, che ci chiamano per un aiuto, che iniziano a
sperimentare sentimenti di insofferenza, rabbia e fastidio verso altri membri
della famiglia. Ovviamente tutto ciò accompagnato da un profondo senso di colpa
e di biasimo per se stessi, in virtù di quei sentimenti negativi che
“moralmente” giudichiamo sbagliati.
Lo stato di cattività in cui, nostro malgrado,
ci troviamo a vivere, ci costringe, come capita agli animali in gabbia, a sperimentare
inevitabili sentimenti di aggressività verso gli altri. L’evoluzione umana, che
ci ha portato così lontano, non ha modificato il patrimonio che ci accomuna con
gli altri animali sociali (l’uomo è pur sempre uno zoon politikòn) in cui le
relazioni sociali sono fondamentali e devono essere positivamente orientate.
Occorre,
pertanto, essere consapevoli che il vivere in “cattività” rischia di esacerbare
i conflitti e aumentare l’aggressività, così e se vogliamo superare la crisi
occorre sospendere ogni giudizio valoriale per concentrarsi su come orientare
positivamente le relazioni.
Ciò non significa arrendersi al conflitto
e alla rabbia, anzi significa decidere di utilizzare in modo preventivo e
intenzionale la “gentilezza”. Rivolgersi all’altro in modo gentile, permette di
creare un circolo virtuoso in cui l’attenzione data ci torna indietro
amplificata. Ricordiamoci che la gentilezza fa sempre bene, soprattutto a chi
la mette in atto.
Ogni vicinanza, tuttavia, per essere
positiva ha bisogno di lontananza, il saper condividere richiede l’isolarsi, saper
stare con gli altri richiede saper stare da soli. Così come nella famosa storia
dei porcospini, in questo momento storico occorre ancor di più prestare
attenzione a mantenere le giuste distanze per non pungersi.
Quello
a cui ci riferiamo è uno dei racconti più famosi e conosciuti di Schopenhauer.
La storia narra di come alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si
avvicinarono per riscaldarsi con il calore del loro corpo. Ben presto, però, si
sentirono pungere dalle spine dell’altro porcospino, così dovettero
allontanarsi di nuovo. Ma non passò molto perché sentissero di nuovo il bisogno
di avvicinarsi per riscaldarsi; e così furono costretti ad andare avanti e indietro
per cercare la migliore posizione.
Allo stesso modo dobbiamo anticipare il
fatto che per sentire il calore dei nostri cari occorre pensare, mantenere e
curare anche la giusta distanza: pensare a noi per poter pensare gli altri. Occorre essere in grado di allungare e
accorciare le distanze, avendo ben presente che solo prendendo i nostri spazi
saremo anche in grado di condividere.
Superare la crisi e l’emergenza è anche
sconfiggere un nemico invisibile che ci isola dal mondo, ci impone di
interrompere le nostre abitudini, compromette la nostra quotidianità, e ci
incarcera con coloro che da amici rischiano di divenire i nostri nemici.
Cosa
fare allora per uscire illesi da questo stato di “cattività” ed isolamento?
Alcune indicazioni, che sono una sorta di punti di riferimento che ci permettono
di orientarsi in mezzo al mare, le possiamo individuare, proprio per non
naufragare e toccare terra più forti di prima.
- Mantenere i propri spazi in cui focalizzarsi su ciò che più ci interessa, facendo entrare attenzione a far entrare ciò che ci fa bene. Questo significa anche selezionare e filtrare le informazioni, evitando così la sovraesposizione a notizie potenzialmente tossiche.
- Esercitarsi nell’arte della gentilezza, soprattutto quando dobbiamo esprimere le nostre esigenze (ad esempio di spazi e tempi) agli altri compenti della famiglia che ce ne saranno grati, perché sentiranno di poter fare la stessa cosa senza essere giudicati.
- Mantenere, ricercare e curare le relazioni importanti e per noi positive. È giunta l’ora di lasciare i social quando rimandano a relazioni apparenti, basate solo sui “like”, per riscoprire il potere magico della tecnologia che accorcia le distanze, permettendoci di creare relazioni dense di significato.
- Creare una sana routine, come già detto in riferimento a chi vive da solo. L’isolamento obbligato dilata lo spazio e il tempo, rischiando di farci perdere l’orientamento e il senso delle cose. Così diviene fondamentale iniziare la giornata prendendosi cura di noi, nel corpo e nello spirito. Quindi muoviamoci (anche se dentro casa) leggiamo, ascoltiamo musica o un audio-libri, studiamo. Ciò ci consentirà di dare senso al presente e costruire il futuro. Il problema non è tanto combattere la noia facendo ricorso ad attività più o meno nobili, e la soluzione non risiede nel convincersi, facendo ricorso ad una sorta di pensiero positivo, che “finalmente possiamo dedicarci a quello che solitamente non abbiamo tempo di fare”. Ma, piuttosto, occorre concentrarsi su ciò che decidiamo valga la pena di coltivare perché, come diceva Huxley, “la vita non è quello che ci accade, ma ciò che facciamo con ciò che ci accade”.
- Lasciamoci del tempo anche per pensare e d immaginare cosa vorremo fare una volta che la crisi sarà finita. Pensarci oltre il problema ci aiuterà a divenire più forti di prima. Come ci ricorda Viktor Frankl, che ha studiato cosa rende l’uomo-uomo proprio durante l’esperienza più terribile della storia dell’umana, come quella dei lager nazisti: “Ciò che permette di fronteggiare anche le esperienze più estreme è il potere dell’uomo di ricercare e attuare il senso e il significato all’interno della propria vita”.
Cosa
può fare la comunità?
La comunità in cui viviamo può dare un
decisivo apporto alla resilienza. Non è
assente. Anzi, il suo non manifestarsi sarebbe ben più grave dell’assenza, e costituirebbe
un contributo negativo e pericoloso, lasciando le iniziative o alle direttive
top-down o alle iniziative particolari non coordinate e non controllabili.
Gli
studiosi (Norris et al., 2008) hanno identificato alcune caratteristiche delle
comunità resilienti, descrivendole come un insieme di capacità adattive,
fondate sulla possibilità di fare rete, che possono provvedere ad una adeguata
informazione e comunicazione rivolta a tutti e a costruire una narrativa
comune, per dare significato agli eventi che si attraversano e coltivare
progetti ed aspettative realistiche per il future.
Per ottenere tutto è essenziale che le
politiche facciano in modo che gli eventi avversi non incrementino le
disuguaglianze sociali e economiche, e quindi le vulnerabilità; che si promuovano
le reti sociali, per mobilitare le energie di tutti nel supportare in
particolare i più deboli, dando importanza e coordinando l’aiuto informale e spontaneo;
e che ci si adoperi per diffondere informazione e comunicazione adeguate e
affidabili. Ci sono infine due aspetti non antitetici ma complementari, e cioè avere
un piano chiaro e strutturato per gestire l’emergenza, ma avere anche la flessibilità
per adattarsi all’evolvere della situazione.
Anche in questo campo le tecnologie e i social, se coordinati, possono venire in aiuto. E nuovi mezzi e nuove ritualità possono essere inventati: i messaggi che si intrecciano nel web, i contatti di vicinato “a distanza”, o i concerti e gli spettacoli condivisi virtualmente.
Moira Chiodini – Patrizia Meringolo
LabCom Ricerca e Azione per il benessere psicosociale –
spin-off accademico dell’Università degli Studi di Firenze – www.lab-com.it
Riferimenti
bibliografici
Bonanno, G. A.
(2004). Loss, trauma, and human resilience: Have we underestimated the human
capacity to thrive after extremely aversive events? American
psychologist, 59(1), 20.
Brewin, C. R.,
Andrews, B., & Valentine, J. D. (2000). Meta-analysis of risk factors for
posttraumatic stress disorder in trauma-exposed adults. Journal of
consulting and clinical psychology, 68(5), 748.
Meringolo, P.,
Chiodini, M., & Nardone, G. (2016). Che
le lacrime diventino perle: sviluppare la resilienza per trasformare le nostre
ferite in opportunità. Milano: Ponte alle Grazie (Salani).
Norris,
F. H., Stevens, S. P., Pfefferbaum, B., Wyche, K. F., & Pfefferbaum, R. L.
(2008). Community resilience as a metaphor, theory, set of capacities, and
strategy for disaster readiness. American
journal of community psychology, 41(1-2), 127-150.